YANGTZE - NADAV KANDER

YANGTZE - NADAV KANDER

project pusher

“ Per me è importante fotografare intuitivamente e di non essere condizionato da quel che già so di un luogo. Quando sono andato in Cina volevo reagire a quel che trovavo e a come mi sentivo.”

Nadav Kander

 

 

Controcorrente

 
Dopo aver letto vari articoli sui quotidiani di tutto il mondo ed un libro di Simon Winchester dal titolo “The river at the center of the world”, tra il 2006 ed il 2008 il fotografo Nadav Kander viaggia per circa 6300 Km lungo il corso del fiume Yangtze, in Cina.
 
Fermandosi nel paese asiatico mai più di sedici giorni e tornandovi per un totale di 5 volte. Il suo percorso ha seguito il corso d’acqua dal delta fino alla sorgente.
 
Sul proprio sito Kander afferma:
 
“non sembra un caso che io abbia viaggiato risalendo il fiume, controcorrente”.
 
Decisamente no, non lo sembra. Le fotografie contenute nel libro (2010, Hatje Cantz) rappresentano la complessa e maestosa realtà del più lungo fiume asiatico (ed il terzo nel mondo) in un modo nuovo e, per certi versi, provocatorio. Per l’appunto, controcorrente.
Questo perché le immagini rimandano ad una percezione (comunque soggettiva) dello sviluppo tecnologico e sociale della Cina ben lontano dalla propaganda ufficiale di Pechino e dell’establishment economico - finanziario globale. Soprattutto in quel periodo, 14 anni fa.
 
Nel suo lungo viaggio Nadav Kander ha pazientemente osservato non solo le immense regioni che costeggiano il grande fiume ma anche e soprattutto la sua personale relazione con quel mondo.
Cercando poi, negli scatti realizzati con macchine medio formato, di presentarne una sua originale visione. Come in vari dei suoi lavori precedenti e seguenti, è riuscito ad esprimere la sua profonda inquietudine ed il senso di alienazione di fronte alle immani violenze nei confronti della natura e delle tradizioni culturali unito però, sempre e comunque, ad un genuino ed originale senso di curiosità ed empatia per il fragile e prezioso elemento umano e paesaggistico.
 
Scorrendo le pagine del volume si ha quasi l’impressione di venire trasportati su di un tappeto volante agile e leggero alla scoperta di un mondo in rapidissima e drammatica evoluzione in cui le persone comuni sono relegate al ruolo di semplici comparse, di soggetti senza volontà che subiscono il cambiamento invece di realizzarlo. Patendone in prima persona anche le devastanti conseguenze ambientali.
 
Ad un certo punto del suo viaggio, il fotografo incontra un signore cinese che gli fa una domanda. Netta, precisa, profonda:
 
“ Perché dobbiamo distruggere per sviluppare”?
 
Qualcuno di voi, in cuor suo, può dire di avere un’altrettanto chiara risposta? Io no. E, credo, nemmeno Nadav Kander. Onestamente, non penso che la cercasse affatto.

 

Raccontare senza documentare

 
 
In un’intervista rilasciata a Jim Casper (fondatore della piattaforma multimediale LensCulture), il fotografo israelo-sudafricano naturalizzato britannico chiarisce in prima persona quello che è il suo approccio alla fotografia:
 

“Fotografare è esprimere sé stessi, la propria visione. Lasciando abbastanza domande senza risposta in ogni scatto che realizzo ed a cui le persone possono reagire come preferiscono, creando le proprie storie e vivendo le proprie emozioni attraverso le immagini.”

 
E qui sta proprio la ricchezza e l’unicità di “The Long River”.
Nell’essere un lavoro che descrive oggettivi elementi di realtà ma senza voler documentare nessuna verità assoluta. A Nadav Kander la verità non interessa minimamente, così come la fotografia documentaria.
 
Gli scatti di “Yangtze” sono elegantissime e suggestive interpretazioni del suo stato d’animo in relazione ad un mondo che gli stimola, come Kander stesso ha più volte sottolineato, “unease, detachment, loneliness” (disagio, distacco, solitudine).
 
Guardando con attenzione quelle fotografie credo sia impossibile non percepire, almeno in parte, le stesse sensazioni provate da Kander nelle sue peregrinazioni lungo lo Yangtze.
 
Senza dubbio la sapienza e la maestria contenute in queste fotografie raggiungono vette altissime, in particolare nella gestione del colore e nelle scelte compositive. Ma ciò che davvero rende il progetto un’esperienza unica è il suo poetico, malinconico ed universale racconto di un mondo morente sacrificato sull’altare della potenza e della ricchezza, un mondo in cui le persone non si ritrovano più, in cui non si riconoscono più perché private delle loro radici.
 
Kander, e qui torniamo alla non casualità delle sue scelte, parla di questa costante e serpeggiante sensazione di vivere in un limbo riferita alla propria stessa vita. La vita raminga di un bambino nato in Israele da padre tedesco e madre russa, cresciuto in Sud Africa durante l’Apartheid ed in seguito emigrato a 21 anni a Londra, solo, per poi sposarsi e crescere 3 figli senza alcun parente vicino e viaggiando costantemente per lavoro.
 
In Cina lui sente empatia con molte delle persone che incontra (soprattutto i migranti interni) perché ne condivide la faticosa ricerca di un’identità. La cosa interessante è che questa sua empatia invece di fisicamente avvicinarlo lo allontana, creando uno strano e disorientante effetto “elastico” in noi osservatori.
 
Kander ne spiega il motivo:
 
“Dopo il mio primo viaggio sono tornato con ritratti abbastanza intimi, immagini di ambienti interni ed esterni realizzate molto vicino ai soggetti. Solo durante il secondo viaggio mi sono reso conto che quello che funzionava davvero per me era fare un passo indietro e diventare più vouyeristico e lavorare dall’esterno delle situazioni. Così mi sono sentito davvero in Cina”.
 

Tutto cambia 

 
 
 
Quel che vorrei aggiungere è che avendo io stesso vissuto in Estremo Oriente (3 anni in Giappone) ed avendo in precedenza girovagato per l’Europa, non posso che condividere le sue parole ed emozionarmi nell'osservare le foto di questo meraviglioso progetto. In cui tra l’altro credo siano presenti richiami alla tradizione pittorica orientale per cui il vuoto, l’assenza, è tanto importante quanto il pieno, la presenza. Un approccio che nell’arte nipponica è espresso dalle versatili e sfuggenti parole Wabi Sabi.
 
Per concludere, direi che la fase di trasformazione che Kander ha così brillantemente rappresentato è ormai un tratto che accomuna i due più ricchi paesi dell’Estremo Oriente. Il Giappone è però già nella fase successiva…..e fin dagli anni ’80/’90 direi. Quella della presa di coscienza definitiva (unita ad una sottile angoscia) per il mutamento avvenuto. Una sorta di rassegnata ed al contempo saggia accettazione del mutare e del fluire delle cose, proprio come l’acqua di un fiume.
 
Nulla rimane uguale a se stesso. Nel bene e nel male.
 
E, come detto da Kander:
 
"il progresso della Cina è rapido e profondo. Queste sono fotografie che non possono essere fatte una seconda volta”.
 





🔎 Fonti

 

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